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Zibaldone: “Il capitale umano”, Bob Dylan ed il Kaiser…

 

Si può dire che “Il capitale umano” non è un capolavoro assoluto, e che Virzì non è un nuovo Germi o Petri?

Il film è teso e vibrante, la sceneggiatura ad incastro ha la sua suggestione indubbia, gli attori sono validissimi; ma resta un fatto: Virzì non ha osato niente di niente (a differenza di ciò che viene detto da molti, per esempio da Emiliano Morreale sul Sole 24 ore di domenica scorsa), e la sua sacrosanta critica sul vuoto valoriale della Brianza e dell’Italia si ferma, si incaglia, si arena al dato meramente antropologico, senza andare a scavare oltre.

Il cinema italiano di denuncia – il grandissimo cinema – degli anni Sessanta, dei Germi, dei Petri, dei Rosi e via dicendo, scavava, invece, eccome se scavava (facendo male davvero al Potere): nella politica, in primo luogo, poi nei potentati economici effettivi, e magari faceva nomi e cognomi.

Questo di Virzì è un film che non fa male proprio a nessuno, come invece sembrerebbe volere fare: la critica politica, è ferma allo stereotipo del leghista brianzolo rozzo ed ignorante (giusto, in larga parte: ma vogliamo vedere cosa abbia prodotto il Pd – per tacere della sponda berlusconiana – in quelle terre, negli ultimi anni? Do you remember Penati Filippo?); la critica allo strapotere della finanza è confinata ad una società fantomatica (quella di Fabrizio Gifuni), che le potrebbe rappresentare tutte (e quindi – come si sa – non ne rappresenta nessuna); i ricchi sono come vengono sempre, immancabilmente, rappresentati i ricchi al cinema: il marito è cinico ed amorale, e trascura la moglie; la quale (Valeria Bruni Tedeschi), annoiata e con qualche ubbia culturale (il teatro di Carmelo Bene), inizia a porsi qualche domandina sugli affari del maritino solo quando tutto sembra perduto; i figli, infine: quello del finanziere d’assalto è l’iperstereotipo del rampollo viziatissimo, da jeep chiavi in mano mezz’ora dopo la maggiore età (pensa tu che originalità!); la figlia del simpatico cialtrone Fabrizio Bentivoglio (l’immobiliarista che fa il passo più lungo della gamba) anela invece a lasciare quel mondo dorato di cui pure fa parte, e – con spirito da crocerossina – si butta tra le braccia di un ragazzo problematico, orfano e con problemi di droga (sbocco un po’ scontato, no?).

La commedia dunque tracima ben presto nel dramma, con il povero ciclista spazzato via dalla jeep; ma la denuncia pretesa da Virzì non decolla, se non appunto a livello meramente antropologico. Ultima avvertenza: diffidare sempre, se il quotidiano confindustriale pubblicizza ed esalta un’opera di denuncia sulla finanza. E non stiamo a ripetere perché…

 

Riascoltata dopo anni, sembra ancora più inebriante: “The man in me”, del poeta in note Bob Dylan. Anche presente – per restare al cinema – nel “Grande Lebowsky” dei Cohen. La canzone ha ormai 43 anni (dall’album “New morning”, 1970). Coinvolgente, al massimo grado. Se Alberto Moravia volle essere celebrato, alla cerimonia funebre, con le note di Bob Dylan come colonna sonora, forse un motivo ci sarà stato…

 

“La guerra è un’azione disciplinare esercitata da Dio per educare l’umanità”, disse il Kaiser Guglielmo II ai cittadini di Bad Homburg, il 10 febbraio del 1918. Siamo nel centenario della I Guerra mondiale, e di ciò riparleremo a lungo.

Il bello è che quel Dio evocato da Guglielmo II per serrare le file del suo popolo in guerra, era lo stesso Dio pregato dai nemici. Come la mettiamo?

5 Commenti su Zibaldone: “Il capitale umano”, Bob Dylan ed il Kaiser…

  1. anonimo scrive:

    Sono perfettamente d’accordo sul film di Virzì, bello ma non un capolavoro. Forse un capolavoro di furbizia, comprese le polemiche subito prima dell’uscita, un amo a cui i leghisti brianzoli hanno subito abboccato, dimostrando la loro pochezza intellettuale, perché così gli hanno solo fatto più pubblicità di quella che merita..

  2. anonimo scrive:

    Film assolutamente sopravvalutato (anche se è sempre bello vedere le sale piene). Virzì fa il film che piace al Pd: fa anche rima!!

  3. Francesco scrive:

    A me il film è piaciuto: Virzì non è mai stato un regista di denuncia ed il suo cinema c’entra ben poco con quello dei citati Germi e Petri.
    Prende spunto dalla realtà italiana, spesso prettamente livornese, per raccontare piccole storie e l’umanità dietro di queste. In questo film io ho visto dipinta molta meschinità, tutti i personaggi (esclusa forse la moglie di Bentivoglio) hanno le proprie bassezze, scorrettezze e piccolezze. Inoltre l’utilizzo di personaggi stereotipati è piuttosto comune nei suoi film: i vacanzieri di destra e di sinistra in “Ferie d’agosto”, il ragazzo povero e quello ricco di “Ovosodo”, la famiglia italo-americana di “My name is Tanino”. Mi sembra eccessivo quindi vedere in un film come questo una critica all’alta finanza o alla gestione politica del nostro paese, il regista semplicemente rappresenta un pezzettino della nostra bella società, e lo fa anche molto bene…
    PS: Bentivoglio a me è sembrato cialtrone sicuramente, ma simpatico per niente, tanto da farmi chiedere come fosse arrivato a conquistare la bella e buona Valeria Golino

  4. "Avete scommesso sulla rovina di questo paese...e avete vinto" scrive:

    Eretico, è vero, Virzì “non scava oltre”, forse non osa. E detto da te, che sei uno che ha osato parecchio, non si può che prenderne atto. Il proposito gravido di promesse nella frase-proclama dalla voce fuori campo di Fabrizio Bentivoglio “Abbiamo alzato la posta, ci siam giocati tutto, anche il futuro dei nostri figli, e adesso finalmente ci godiamo quello che ci spetta”, non trova poi che un debole riscontro nello schiudersi della narrazione. Rimane lì, sospeso in un limbo di intenzioni, che invero non giustifica le polemiche sollevate dai brianzoli ( e mi viene in mente che potrebbe essere una trovata pubblicitaria per far parlare del film!). I ricchi sono sempre anaffettivi e intendono solo il linguaggio del profitto, i poveri e disgraziati sono buoni e sensibili. Vabbè, un exemplum di scarsa originalità. Convince poco la storia della ragazza che infine scarta il ricco e belloccio figlio di papà (che poi non è nemmeno cattivo) e sceglie di stare con il disgraziatino (anche un po’ bruttino) che finisce pure in galera e di certo non avrà nessun futuro dinanzi a sé. Non convince la psicologa , che ci si aspetterebbe avesse una visione abbastanza chiara delle varie tipologie umane e che invece sta con il più imbecille. Ma queste sono scelte probabilmente a monte del soggetto che in realtà prende le mosse dal romanzo dell’americano Stephen Amidon, le cui intenzioni non sono a me note non avendo letto il libro. Il montaggio a falde temporali ricorda un po’ quello di Inarritu in “21 grammi”, la scelta di ispirazione altamaniana della narrazione corale mi ricorda “Magnolia” (uno dei miei film preferiti) di Paul Thomas Anderson. Bella la sequenza iniziale con movimento di camera dolly montata su gru, o almeno così mi è sembrato. Gli attori tutti impeccabili. Ha seguito un “metodo infallibile” dice Virzì in un intervista, “ho scelto quelli più bravi”. Vero. Irresistibile Bentivoglio nel ruolo di Dino Ossola un personaggio “normalmente smisurato” come lo definisce Bentivoglio stesso “che non si rende conto di questi suoi continui sconfinamenti tra l’umano e il disumano”. Bravo Gifuni , romano, che si produce in un perfetto accento brianzolo. Da segnalare il giovane attore di teatro Giovanni Anzaldo, diplomato alla scuola del Teatro Stabile di Torino, che Virzì ha scelto per interpretare il ruolo del disgraziato Luca, dopo averlo visto esibirsi in una piéce. Mirabile, la sentenza finale consegnata all’elegante interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi :
    “Avete scommesso sulla rovina di questo paese… e avete vinto”. Chissà se anche nel romanzo originale di Amidon esiste questa conclusione, o se è solo nella sceneggiatura italianizzata di Virzì..?

    margh.

  5. Luigi De Mossi scrive:

    Concordo in pieno con il post e con i commenti.
    Virzì è bravino ma manca sempre qualcosa per arrivare a fare film grandissimi.
    Uscito dalla sala mi sono domandato che impressione farà rivedere (certi) film italiani tra dieci anni.
    Non è nè Germi nè Petri ma non ha neppure il graffio di Salce de La voglia matta per la satira di costume.
    Fare il cinema è, essenzialmente, raccontare una storia al netto delle trovate ad effetto che, in questo caso, si sgonfiano.
    Luigi De Mossi

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